Futuri


Giulio Turci, LA GRAMOLATA, 1952, Santarcangelo di Romagna

Giulio Turci, “La gramolata”, 1952

Ci siamo conosciute per un anno appena, nonna. Lo testimoniano le poche foto in cui papà ci ha riprese assieme, sull’ultimo letto in cui, di lì a poco, ti spegnerai. Rido paffuta e sdentatella a papà che ci inquadra e tu sorridi mentre mi guardi. Un sorriso stanco e sofferente, che non ha memoria della tua bellezza giovanile se non, forse, per il tuo sguardo azzurro.

Del nostro passaggio breve nelle reciproche esistenze, oltre a qualche foto in bianco e nero, lascerai traccia in una lettera scritta con bella grafia a un tuo figlio lontano, sradicato per sempre dalla passionale Romagna per mettere radici, fino alla morte, nella bella Liguria.

È il 5 Ottobre del ’57 quando intingi il pennino nell’inchiostro e scrivi, con tratto chiaro e bello:

Miei Cari;

Perdono della tardanza che o avuto nell’inviarti nostre notizie abbiamo ricevuto il pacchetto della medicina, Caro mio Edmondo non so come ringraziarti della premura che ai avuto verso di me tua mamma, Come ti putrò ricompensare, con una preghiera? Dirai bene che si mangia poco e vero, Mondo ai ancora visto Ersilio a fatto una scappatella di dieci ore domenica scorsa ciafatto una provisata la Stefanina si mantiene sempre più birichina cerca sempre sassulini. Come vela passate state bene Valeria sta bene canta nella casetta, nuova, la nostra salute e abbastanza buona ci contentiamo il babbo avuto una colica dolori masie rimesso subito agià cominciato bere di nuovo ricevi cordiali saluti da noi tutti infamiglia
da Pepino e vicino alla stefania che siealzata cattiva, non alungo solo salutarti di quore a te e Valeria dandovi la Santa Benedizione tua Mamma

Ultima lettera nonna Tina RN 1957

C’è un doppio ghirigoro sotto la parola Mamma, come qualcuno ama fare quando firma, e le iniziali sono tutte calligrafiche, come insegneranno a fare anche a me nel 1961. Anch’io userò cannetta e pennino e i miei primi segni sul quaderno, dopo una fase iniziale con la matita, saranno tracciati con altrettanto inchiostro nero che i bidelli delle elementari continueranno a rinnovarci, nei calamai dei banchi, fino alla quinta, quando, negli ultimi mesi di scuola, la supplente ci farà finalmente adottare la favolosa Bic a punta fine.

Ma non c’è ancora il minimo sospetto, in quella lettera, del mio possibile futuro di scolara e lo sai bene (Peccato non poterla vedere crescere!, dirai a papà). Infatti, non solo ti sta consumando un tumore al fegato, ma sei anche vecchia e provata. Papà, l’ultimo dei sei maschi sopravvissuti su tredici figli, lo hai partorito a quarantacinque anni. Un’anziana, all’epoca, ma negli anni ’20 del Novecento mica ci si badava. Si era macchine sfornafigli e brava chi non ci lasciava le penne. Per che cos’altro si era donne, allora, se non per essere feconde e accudire prole e focolare?

Ma era questo che sognavi da giovane? E potresti dire di esserlo mai stata, se a sedici anni eri già una moglie e, poco dopo, madre del tuo primo figlio?

Forse, lo eri quando annacquasti l’anice che ti avevano mandata a comprare allo spaccio. Non lo fossi stata, avresti saputo che il berne una mezza bòcia prima di arrivare a casa, tu e l’amichetta che ti accompagnava, vi avrebbe rese un po’ troppo allegre e che il riportare il delizioso liquido al livello originale, allungandolo con l’acqua della fontana, lo avrebbe reso opaco e biancastro. E tu, nonna, non ti saresti buscata un fracco di botte da tuo padre, che, confesso, sono felice di non avere conosciuto.

Sognavi, allora, di rimanere vedova a diciott’anni per quello sciagurato incidente capitato a Domizio?
Avresti mai pensato che il tuo giovane marito potesse morire per aver aspirato involontariamente polvere da sparo dalla canna del fucile mentre la ripuliva davanti al camino? Polvere ardente che gli ustionò il cavo orale.
Chi fu a soccorrerlo mettendogli la neve in gola pensando di alleviargli il dolore?
E sarà vero che accosterà i due indici per comunicare a tutti la sua decisione su di te e sul suo giovane fratello? O sono i suoi parenti a pensar bene che una giovane vedova non può continuare a lungo il suo peregrinare fra le famiglie dei dintorni, offrendo la sua arte di sartina e di bravissima bustaia?

Oggi non c’è più nessuno a dissipare i dubbi, ma, di certo, quel cambio di rotta nel tuo futuro non lo scegliesti tu. Tu ci stavi bene in quella nuova vita, racconterai a mia madre molto più tardi. I contadini sparsi per le campagne ti volevano bene. Restavi qualche mese presso le famiglie cucendo, rattoppando e riadattando gli abiti dai più grandi ai più piccoli. In cambio, vitto e alloggio per te e il tuo bimbetto. Scaduto il tempo, veniva a prendervi qualcun altro col carretto e vi portava con sé. Non ci pensavi proprio a risposarti e, men che meno, con quell’antipatico di tuo cognato ancora minorenne!
Che usanza primitiva, nonna, quando, sia pure povera e con soli due anni di scuola elementare, avevi già staccato il cordone ombelicale e svolazzavi libera con le tue sole alucce! Oggi, noi la potremmo definire indipendenza o emancipazione. Allora, la si chiamava sconvenienza.

Così, mentre assapori la tua libertà in giro per quel piccolo mondo rurale, tutti, in famiglia, aspettano che nonno Franzchìn raggiunga la maggiore età. Ha quasi diciassette anni, tu diciannove. Dovrà compierne diciotto, prima di assumersi il ruolo deciso per lui a partire da un fratello morente.
E il momento arriva. Tutti i pezzetti del mosaico tornano a posto e il disegno si realizza, i contorni si allargano. Non basterà una tela, né un trittico. Diventerà un polittico di storie colorite e aneddoti e, probabilmente, qualche leggenda.

L’avresti mai immaginata un’opera di tali dimensioni?

Non so se hai visto gli sviluppi in tutti questi anni da , dove qualcosa di te sono convinta sopravviva, perché, altrimenti, non mi avresti sussurrato nella testa per tutti questi anni: scrivi qualcosa di me, ricorda il mio passaggio, restituiscimi il mio nome. Perché in tutta quella banda di benedetti “maschiacci”, a monte ci fu anche una donna. Che si firmava Mamma zigzagando col pennino sotto il nome. Ed era Tina per tutti, nessuno la chiamò mai col suo vero nome. E aveva avuto sogni che non si erano realizzati.

Devi sapere, nonna, che quella nipotina a cui sorridi stancamente dal tuo letto ha fatto cose molto “sconvenienti”, secondo i tuoi contemporanei, ma assomigliano un pochino a certi sogni che hai nutrito tu.
Per esempio, quella nipotina non ha rattoppato a lungo il suo matrimonio, come richiesto invece alle donne dei tuoi tempi, e ha partorito una figlia sola, come succede spesso al giorno d’oggi, ma penso ti farà piacere il fatto che sia femmina. La femmina che ti mancò tanto fra quegli amati figli sopravvissuti ai troppi travagli.
Inoltre, quella nipotina si firma con un paio di svolazzi sopra il nome anziché sotto, ma comunque svolazzi, e paga a caro prezzo tutti i giorni la sua libertà, ma è convinta che il vantaggio sia incommensurabile e sa che, forse, tu la capiresti.
E non dimentica, fra le altre cose, che ti chiamavi Adele.

STEFI piccola e nonna Tina-Adele

Stefania Ferrini


Categorie:I racconti di Bologna Blog

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