Il fittone di via Zamboni e la goliardia bolognese


In piena zona universitaria, all’inizio del portico di Palazzo Poggi, un paracarro bianco in pietra d’Istria supera in altezza tutti gli altri. Pochi sanno che è la copia fedele di quello che, da quasi 100 anni, è il totem degli studenti appartenenti alla goliardia bolognese.

I paracarri, a Bologna chiamati anche fittoni, sono pilastri di pietra che sostengono catene di ferro. Oggi sono ormai in gran parte sostituiti dai dissuasori mobili ma, un tempo, impedivano il transito a carri e carretti che avrebbero danneggiato la pavimentazione dei portici. Quello in questione, dalla forma slanciata, ha un’involontaria somiglianza con il sesso maschile e, per questo, gli studenti universitari appartenenti alla goliardia ne fecero il simbolo del loro ordine all’inizio del XX secolo.

Il paracarro era originariamente posto in via Spaderie, una delle tante strade che furono cancellate dal piano regolatore per la creazione di Piazza Re Enzo. Il 13 maggio 1912, poco prima che via Spaderie fosse rasa al suolo, un corteo goliardico sradicò il pilastro e, con una solenne processione, lo trasportò fino in Via Zamboni, per murarlo sotto il portico. Alla base fu scolpita una citazione dantesca “ed io eterno duro”, ma intesa con tutt’altra accezione. Inoltre, fu aggiunta la scritta, S.V.Q.F.O. (Sacer Venerabilis Que Fictonis Ordo), che in un latino maccheronico battezzava il “Sovrano Ordine Goliardico di Bologna”.

I danneggiamenti a questo singolare totem, compiuti soprattutto da studenti di altri atenei, furono numerosi e continui. Negli archivi universitari, ad esempio, esiste una documentazione con tutta la trattativa per la “liberazione” del fittone, rapito da studenti modenesi. A poco valse la gabbia di ferro posta a protezione nel 1931, dopo un primo restauro. Nel 1958, dopo l’ennesimo danneggiamento, l’università restaurò il paracarro e lo mise al sicuro in una collezione privata non visitabile. Solo negli anni Settanta, quando la goliardia bolognese riprese vita, si decise di realizzare una copia perfetta del totem, da ricollocare in via Zamboni.

L’origine della Goliardia a Bologna

Fin dal medioevo la goliardia riunisce gli studenti che si proclamano seguaci di Golia e, dunque, buontemponi e amanti dei piaceri del bere e del mangiare. Nel 1886 fu l’allora professore Giosuè Carducci a incoraggiare l’ufficializzazione della goliardia a Bologna.

Se il paracarro diede nome al Sovrano Ordine Goliardico di Bologna, le congregazioni interne furono chiamate, a loro volta, balle, insistendo sulla metafora fallica. Le balle riunivano dei piccoli gruppi di studenti provenienti da varie parti d’Italia.

La goliardia, che ancora oggi organizza feste e ritrovi riservati agli adepti, in passato riceveva spesso finanziamenti dei commercianti bolognesi per molte attività che movimentavano l’intera città: cene, sfilate di carri, concerti con la banda, gare di carriole e, ovviamente, un’infinità di scherzi, dalla vestizione della statua del Nettuno ai picnic in mezzo alle strade. La festa più famosa era quella delle matricole, con i processi che terminavano con la debregatio, il rito solenne con cui i nuovi iscritti all’università accedevano alle balle tramite la timbratura delle terga.

Le matricole erano oggetto di scherzi per tutto il primo anno di studi. Per scampare a tali beffe dovevano procurarsi due “documenti”. Occorreva il Papiro che, redatto su pergamena dagli anziani dell’ordine, riportava tutte le regole per un corretto comportamento di deferenza verso i membri della goliardia. Servivano, inoltre, i “codicilli”, cioè foglietti firmati dagli anziani che consentivano l’accesso in via Zamboni e alle facoltà. Il codicillo più ambito era il Non plus ultra, che era rilasciato direttamente dall’ordine e liberava la matricola da ogni nuova beffa o richiesta di prestazioni.

Dopo la festa delle matricole iniziava un periodo di studio molto intenso e i divertimenti erano sospesi.

Barbara Zoli


Tratto da: Davide Daghia, Bologna insolita e segreta.

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