Il “Piviere”


“Mmmmmm…!”.
Udìa, ai sém!”. Oddio, ci siamo. Sì, perché quando il suocero muggiva alla finestra della cucina guardando il cielo, nonna Augusta sapeva che, presto o tardi, avrebbe fatto burrasca. Il bello è che Pivîr non lo faceva quando il cielo si anneriva, indicazione ottica che tutti avrebbero saputo riconoscere. No. Pivîr muggiva già dal giorno prima e andava avanti con quella sinfonia per ore. A questo, la nonna sapeva di doversi rassegnare. Perciò sbuffava.
Per quanto, un efficace servizio meteorologico, in tempi in cui nessuno immaginava la futura televisione, mica era da buttare. Quindi, chi meglio di un vecchio contadino e cacciatore?
La previsione avveniva dalla porta-finestra della cucina, il cuore di casa Manduchi dove condividevano i pochi spazi abitabili Bigiòti, la Gôsta, i loro figli Mariolina, Iolanda, Renata, Roberto, il nonno Pivîr e Puîn, il suo gatto rosso.

In questo ambiente quadrato avremmo visto soprattutto due costanti: la presenza dell’Augusta, “regina” del focolare, donnina asciutta e passo svelto da formichina operosa, e quella di un vecchio segaligno dal naso così lungo da guadagnarsi, da tempi immemori, il soprannome di “piviere”. Lei in azione dappertutto. Lui nel suo cantuccio, pipa in bocca e un bidoncino dove indirizzare gli scaracchi.

Pivîr non era stato un uomo facile, tutt’altro. Sin da giovane, la gente lo conosceva come un tipaccio strano, piacevole coi pochi che gli erano simpatici e cattivo con i più. Duro con la moglie e con i figli (a tavola mangiavano con i coltelli in mano sotto il tavolo), dava il peggio di sé fuori delle mura domestiche. A causa di un litigio eterno per una questione di orti confinanti, il suo vicino aveva covato vendetta per giorni, ma la fucilata, secondo lui risolutiva dell’annosa faccenda, aveva ucciso per errore un innocente e lo sparatore era finito in galera.
Due vite distrutte nei trascorsi dell’adunco Pivîr.

Eppure, una volta accolto nella casa di Bigiòti, il suo comportamento fu irreprensibile con tutti, tranne che col figlio, appunto, a cui si rivolgeva solo quando strettamente necessario. Mai una critica alla nuora, né la durezza coi nipoti che aveva riservato ai propri figli. Per le tre ragazze e il giovane rampollo, il nonno era maestro di vita e presenza imprescindibile dal nucleo domestico tanto quanto la madre, tanto quanto il padre, sebbene più assente per il suo lavoro di manovale in Ferrovia.
Solo il più piccolo della nidiata avrebbe avuto, forse, qualcosa da ridire quando ci giocava a carte, con quel nonno burbero. Le lezioni, infatti, finivano sempre allo stesso modo: con la vittoria di Pivîr e la battuta “Te, Ruberti, sei un cuglione!”, scandita in faccia a un bambino in lacrime. La Gôsta allora supplicava: “Ba’, fèl vinz ogni tènt!”. “Naaa!” ribatteva lui, “l’ha da imparèee!!!” (1).
E zio Roberto imparò eccome. Sua figlia Stella dice che le insegnò a giocare a carte con lo stesso metodo: inclemente.

Tutti i nipoti quindi, lo zio e le sue tre sorelle, impararono qualcosa da quel nonno dalla lunghissima canappia. Nessun nipote ricevette dal “piviere” un solo esempio negativo, per quanto ai propri figli lui ne avesse dati. Altro che se ne aveva dati, quello che oggi chiameremmo senza indugio un padre anaffettivo!

Con mia madre Pivîr aveva un rapporto un po’ speciale. Lasciata la scuola dopo la quinta elementare per frequentare quella di sartoria, la giovane Iolanda poteva ricavarsi un paio di giornate in cui gestire le prime clienti lavorando da casa. Si era quindi consolidata, fra il vecchio e la secondogenita dei Manduchi, un’empatia che li faceva comunicare senza sprechi di parole. In più, secondo lui, mia madre aveva un pregio che gli altri nipoti non possedevano: “Té t’am ascàult, Landi! (2)”.
Sì. Lei lo ascoltava e imparava.

Colei che per mia figlia diventò poi la “nonna Iole”, citava spesso il suo nonno quando raccontava della propria infanzia. Di quell’incanto che riempiva i suoi occhietti scuri quando, con lui, seguiva il ciclo della vita che si svolgeva nel Mavone, il canaletto che scorreva in fondo agli orti delle case cresciute intorno agli argini.
Nel giocoso apprendistato lungo le sue sponde “A s’èra sempre s’e’ mi nòn Pivîr! (3)”, diceva. Con lui, infatti, andava alla ricerca dei girini per seguirne la crescita ogni giorno, finché non si faceva l’ora di chiamarli rane. Con lui si divertiva osservando gli anatroccoli, il tenero beccuccio arrotondato e il soffice piumaggio da accarezzare.
A ogni migrazione di uccelli, a ogni nuovo ciclo della vita, la Landi e Pivîr avevano seguito le crescite di pomodori e di zucchine e di fagioli, raccolto i cachi e i fichi dagli alberi dell’orto, collaborato alla raccolta dell’uva che pendeva dalla pergola. Inoltre, la Landi non aveva più staccato, mai più mai più!, gli acini acerbi dalla vite dopo che, a quattro anni, lo aveva visto infuriarsi pur non avendola rimproverata: “La n’ha còulpa léa, a si vô c’avress duvù badèla!” (4). Se l’era presa con la nuora e il figlio per non averla istruita a dovere, non con lei.

Gli anni passavano e i giovani di casa ormai volavano da soli fuori del nido. Pivîr, invece, si era ritirato in ogni senso: rinsecchito, curvo e malinconico, amava sempre più rintanarsi nello sgabuzzino in cui dormiva da anni. Il vecchio tronco prosciugato strascicava i passi fino alla cucina soltanto all’ora del pranzo e della cena. Il resto del tempo lo trascorreva a letto, dove la testa ripescava tra le nebbie i ricordi sparsi di una vita intera.
Quando per l’incontinenza bagnava anche il letto, non c’era che la nuora ad accudirlo. Nei rari momenti di lucidità Pivîr la supplicava: “Nu bròuntla, Gôsta, nu smòcla… La t’è tuchèda ma té, purèina! (5)”. Non al figlio Bigiòti era toccato il compito di assisterlo, né agli altri figli che non rivedeva più da anni, ma a quella nuora tanto minuta, energica, saggia e preziosa che aveva imparato a stimare da molto tempo.

La fine era vicina ma lui decise di non aspettarla. Un giorno di primavera, rimasta mia madre sola in casa con lui (la Gôsta si era tanto raccomandata: “Bèda e’ nòn, Iole, c’un cumbèina guai! (6)”), lo vide sgattaiolare dallo sgabuzzino alla camera da letto dei genitori. Lei lo seguì allarmata, per via della “sclerosi”, e lo trovò col fucile da caccia in mano. Bigiòti lo teneva appeso al muro, previdentemente scarico, ma il nonno sapeva in quale cassetto del comò il figlio tenesse le cartucce. Mia madre si avventò sul fucile:
Nòoon, c’sa fasì!”.
Va’ vi’, Landi, va’ vi’!”.
Mitì via la s-ciòpa. Lasè andè, Nòn. Dém c’la s-ciòpa!”.
T’an capéeesss… An voi murì màrtriii!!!”(7).

Ma non era scritto in alcun testo sacro che Pivîr dovesse morire martire, né quel giorno né mai.
Angelo Manduchi, detto Pivîr per il naso lungo e le gambe da trampoliere, morì infatti mesi dopo, un giorno di settembre, di normalissima vecchiaia, a settantotto anni.

Stefania Ferrini


Traduzioni dal dialetto riminese:

(1) “ Babbo, fatelo vincere ogni tanto!”, “Nooo… deve imparare!!!”.
(2) “Tu mi ascolti, Landi!” (diminutivo di Iolanda in dialetto riminese, come per Luigi = piccolo Bigio = Bigiòti).
(3) “Ero sempre col mio nonno Pivîr!”.
(4) “Non ha colpa lei, siete voi che avreste dovuto badarla!”.
(5) “Non brontolare, Gusta, non moccolare. È toccata a te, poverina!”.
(6) “Bada il nonno, che non combini guai!”.
(7) “Nonno, che cosa fate!”.
“Va’ via, Landi, va’ via!”.
“Mettete via lo schioppo. Lasciate andare, nonno. Datemi quello schioppo!”.
“Tu non capisci!… Non voglio morire martire!!!”.

Categorie:I racconti di Bologna Blog

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