C’eravamo quasi, piccolo: una trentina di chilometri, passaggio di consegne a Brindisi e poi di nuovo a casa, finalmente. Definitivamente. Solo che questo viaggio non era iniziato come tutti gli altri: avevo avuto più paura. Non solo della polizia e di finire dentro (certi rischi, piccolo, fanno parte del mestiere), ma soprattutto per te, ora che ci sei. Volevo ritornare a stringerti e ritrovarti così minuscolo tra le mie braccia, sentire di nuovo il tuo profumo di latte e borotalco che già mi mancavano, rincoglionirmi come tutti i padri guardandoti per ore dormire nella culla. Per questo avevo usato ancora più prudenza e sopportato il viaggio, senza neppure bestemmiare per la nebbia che da Ferrara mi aveva torturato fino a Imola, o per gli imbecilli che si incontrano sempre, quando uno macina chilometri per tutto il giorno come faccio io. Neppure un’infrazione per più di mezza Italia e quando ormai mancava così poco, va a capitarmi questo.
Non ho potuto farci niente, piccolo, non l’ho voluto io, credi.
Avresti dovuto vedere la scena. Ma cosa dico. Meglio che tu non veda queste cose, che tu non sappia mai.
Quanti saranno stati, una decina di secondi? Be’, dieci di troppo, nella nostra vita. Tutto per un bastardo che strombazza come un assatanato e cosa fa, quando gli lascio strada? Sbanda, l’idiota, e gira su sé stesso, e poi capotta e si raddrizza, e io freno, piccolo, con tutti i piedi che ho, e se potessi con le mani, cerco di mantenere il controllo del mezzo, di salvare il carico, è roba tossica, roba che scotta, e io non voglio affogare nei veleni, vedermi piombare addosso tutte le volanti della zona. Voglio tornare da te e da tua madre. Ma il carico è pesante, hai voglia a frenare, e non ho spazio per schivare l’auto, la becco in pieno, la trascino con me nella frenata, e il camion poi si ferma e io rimango lì… Completamente rintronato, piccolo, per dei secondi eterni…
Ed è la vostra foto che mi fa riprendere, quella di te attaccato al seno di tua madre, vedo che vi scollate dalla plancia e scivolate a terra, lo prendo come un segno del destino, un brutto segno, piccolo, e mi ritrovo un cervello funzionante, due mani dure come morse che si staccano di colpo dal volante, la forza per aprire la portiera, scendere dal camion non so come, ancora intero non so il perché, udire le frenate di altri mezzi, andare dietro il camion, trovare l’auto accartocciata ancora in piedi, avvicinarmi a quell’idiota che ha causato tutto questo, vedere che è incastrato fra le lamiere, la maschera di sangue, gli occhi aperti… Sono azzurri, piccolo, come quelli di tua madre, come probabilmente i tuoi tra qualche settimana, e forse sono belli se non ci fosse tanto rosso dappertutto, e sembrano fissarmi. La maschera muove la bocca, ne esce un fiotto che mi dà la nausea. Sta soffocando nel suo stesso sangue, penso, non posso farci niente. Scappare. Questo devo fare. Qualcosa me lo dice, la foto di voi due quando è caduta, la polizia, la galera, il gran vociare della gente che si avvicina minacciosa, lo sguardo azzurro del ferito che, lentamente, intrufola una mano sotto la giacca e tira fuori una pistola. Cristo, no.
Dovrei fuggire, piccolo, lo so, e invece resto lì, vedo le azioni che si svolgono nel mio cervello: balzo nel fosso, scavalco la rete, sfreccio nei campi con il turbo ai piedi, proprio come nei cartoni che un giorno guarderemo assieme, io e te, divento piccolo, un puntolino all’orizzonte fino a sparire, pòf!, lontano, libero.
E invece sono qui, bloccato in un fermo immagine, e questo corpo è marmo, e non ha gambe per fuggire, animatori che lo azionino, tasche miracolose da cui estrarre una sola, rozza, inaspettata arma di difesa.
Un corpo a cui appare tutto chiaro in un baleno, fulmineo, un colpo duro, che gli buca il petto.
Nessun dolore. Solo stupore. FINE DEL VIAGGIO. Tutto qui.
Non dovevo più tornare, piccolo, questo era il disegno. L’ultimo carico, avevano detto, l’ultimo viaggio e poi li avrei dimenticati per sempre. Questo avevano detto allungandomi la busta col denaro. Il resto al mio ritorno e, dopo, anche loro mi avrebbero dimenticato. Proprio così hanno detto i bastardi. Ma gli è andata male: il loro cazzutissimo sicario sta crepando esattamente come me, e il carico finirà sotto sequestro della polizia. Pensa che titolo: “Racket ruba a sé stesso camion di rifiuti tossici per eliminare testimone scomodo”. Sai le risate.
Ma io non riesco a ridere, piccolo, c’è qualcosa che mi brucia, invece, e non è il buco al petto, il fuoco lancinante che neppure avverto. No. Ciò che mi brucia dentro è che non tornerò da te e da tua madre, che mi aspettate nella nuova casa, comperata non importa come. Vedi… volevo viverci una vita decorosa, vederti ruzzolare sul prato a primavera, quando sarà tutto pieno di margherite, sentirti dire la tua prima parolina, e un giorno anche pa-pà… Una bella casa… che riempisse di orgoglio tua madre, che non capirà, non mi perdonerà, e che farà di tutto per dimenticare, per cancellarmi dalla tua vita perché tu non debba… vergognarti di me… tuo padre…
Mi dispiace, piccolo, le cose sono andate così… Il meglio, il peggio… la scelta… tutto appartiene a un presente che non è più il mio… Te lo consegno, figlio… prendilo… è tuo.
Stefania Ferrini
Brava Stefania! Bellissimo racconto. Hai mai letto “Il mulo” di Tony D’Souza? Lo stesso problema di base: mantenere i figli. La necessità non so quanto reale di garantire loro “un futuro migliore”. E intanto rovinare il presente.
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Grazie, Anima silvae, per l’apprezzamento e per l’invito alla lettura di un autore che non conosco. Lo cercherò.
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