Un’ora all’alba


Chiudi gli occhi e ascolta. C’è silenzio in questa notte mite. Un tipico silenzio di vicoli dormienti. Quasi le cinque del mattino. Ancora un’ora, prima che qualcuno si alzi e rompa il silenzio.

Non ci sono tiratardi per le strade anguste, nessuno che ferisca più l’udito coi suoi rutti da ubriaco o il lancio di lattine o i rotolii dei vetri sul selciato, in questo vecchio cuore urbano. Non un drogato o una marchetta fuori zona. Solo un silenzio immobile. Ma non sarà a lungo. Incominciamo noi ad animarlo con qualche suggestione.

Partiamo da te, tu sei al centro di questo scenario ancora inalterato. Partiamo dal tuo respiro. Ascoltalo. È il primo suono che puoi percepire.

Senti come il torace prima si espande e poi si ritira in sincronismo con le tue narici, senti l’aria che vi scorre e le lambisce ripetutamente. Non cercare odori in questa notte, anche se profuma già di primavera, non accendere altri sensi, non ancora. Pensa soltanto all’aria, per adesso, a come interagisce con le tue narici. Produce un suono, senti? Un suono debole, soffuso, quello di un soffio a due movimenti, un levare e un battere, solo due, ma all’infinito. Una perennità miracolosa, ne convieni?

Ah, preferisci darle un suono più carnale e va bene. Sì: ricorda il suono prolungato di una effe che, però, si accentua nel secondo movimento, quando espelli l’aria. Stai andando bene, continua con le percezioni. Segui quell’aria giù per i canali interni di ventilazione, nota come la gola si rinfreschi, come si diffonda fra le spalle e nella parte alta del tuo tronco; lì fa una breve pausa, prima di risalire, ed ora eccola di nuovo uscire dalle tue narici in uno sbuffo un po’ più tiepido e rallentato.

Rifletti. Hai notato altro quando c’è stata quella pausa? Hai sentito, nel frattempo, un piccolo sussulto al centro dello sterno, come uno spostamento lieve del tuo assetto? Un battito smorzato, un suono quasi impercettibile. Per meglio dire, un ritmo.

Lo avevi sottovalutato, di’ la verità, lo avevi dato per scontato. E invece ti ho aiutato a fare una scoperta, piccola ma importante: che il silenzio non è mai assoluto, nemmeno in questi vicoli, a quest’ora. C’è, per lo meno, il ritmo soffice del tuo respiro, il battito ovattato del tuo cuore. Ma, allora, perché non credere che possano esistere anche altri ritmi e altri battiti?

Lo so, credevi di essere in platea e ti ritrovi invece sopra un palcoscenico. Adesso non farti prendere dal panico, proseguiamo il gioco, invece, e senza aprire gli occhi. Non ancora.

Immagina altri ritmi, altri respiri e cuori palpitanti dietro le persiane chiuse.

Ah-ha! Ti ho visto, hai sbirciato. Ma sì, voglio essere buona. Allarga pure il campo, se vuoi, alza lo sguardo sulle persiane ancora sigillate dal sonno. Fra non molto, quelle palpebre di legno, quegli occhi dipinti prenderanno a sbattere e, infine, si apriranno definitivamente.

Occhi, certo, perché se ancora non lo avessi capito stiamo parlando di me, del mio corpo; questo quartiere non è altri che il mio cuore. Atri, ventricoli, capisci?, anse, gomiti, larghi, incavi, curve, scorticature e incarnati ocra e rossicci, e capigliature tegolate di squisite geometrie, e ciuffi alti, bassi, dritti e smerlati che puntano verso il cielo.

Anch’io sono corpo, anche se non esattamente come il tuo. Pensa piuttosto a una stella irregolare, a una filigrana che si dirami in tanti pedicelli diseguali e luminosi. Se tu mi vedessi da un aereo in volo, come mi hanno ammirata in tanti, capiresti, vedresti quanto sono bella da lassù, quanto io sappia risplendere e spiccare nell’oscurità, diadema che brilla di luce propria in un museo notturno, delicato cesello amorevolmente lavorato, sfolgorio di luci bianche e oro caldo. Distingueresti il cuore da cui partono le arterie principali, le intersecazioni di vene e capillari. Riconosceresti ogni singolo brillante incastonato: fari, faretti, vetrine, lampioni, finestre, lampeggianti, anabbaglianti. Riconosceresti questo cuore, dove ti trovi tu adesso, dove scorre questo flusso regolato da una pausa – ricordi? – o questo momento esatto della notte, in cui non è ancora iniziato il solito levarsi, il noto andirivieni di passi tutti diversi, e, pure, tutti uguali. Un andare e venire di suoni: smorzati per il garbato impatto delle suole sul selciato, o scricchiolanti di tomaie poco addomesticate, o percussivi e cupi  di tacchi larghi e pesanti, o stridenti e picchiettanti di certi tacchettii (certune amano quel loro strambo suono identitario). Tacchi che sono l’espressione di passi, che sono l’espressione di andature, che sono l’espressione di urgenze più o meno urgenti. Tacchi emotivi. Tacchi umorali.

È a questi passi che voglio ricondurti, iniziando dai tuoi. Puoi avanzare, ora, incamminarti per questo corto vicolo deserto. Decidi tu se all’angolo vorrai svoltare a destra o a sinistra, tanto ciò che ti si prospetta non cambia: di qua o di là incontrerai qualcuno. Forse uscirà dall’androne di un palazzo e sarà vecchio o giovane, bello o brutto, uomo o donna, scegli tu. I vostri occhi si incontreranno per un attimo e l’altro, o l’altra, avrà un sussulto, sarà stupito o stupita della tua presenza e cercherà di mascherare la sorpresa (è così raro trovare qualcuno che sia già in piedi, ma può essere a volte anche di conforto). Abbozzerà un sorriso o distoglierà lo sguardo con un moto d’inquietudine: che ci fai, tu, qui, a quest’ora? chi sei? da dove arrivi? dove vai? che intenzioni hai? Susciti più curiosità o diffidenza in chi esce abitualmente di casa all’alba e non incrocia mai nessuno per la strada?

Tempi maledetti, questi, che portano a diffidare di chiunque!… Quasi le sei! Presto, ch’è tardi, andiamo andiamo!

Sì, meglio che allunghi il passo e vada, chissà se per andare ‘incontro a’ o per ‘fuggire da’.

Il tocco dei suoi passi risuona sul selciato, fa un’eco strana contro i muri delle case, come di altri tacchi e chissà che non lo siano davvero.

Be’, coraggio, adesso tocca a te. Quasi le sei, hai sentito cosa borbottava, è ora che anche tu vada, e prenda corpo, e faccia parte della trama.

Io? Io, come sempre, resto qui a godermi lo spettacolo.

Stefania Ferrini

Categorie:I racconti di Bologna Blog

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