Bologna: ex Ghetto ebraico


Un bel progetto di valorizzazione urbana dell’ex Ghetto di Bologna, promosso dal Comune nel 2015, ha reso ancora più interessante e suggestiva una passeggiata nel suo dedalo di strade, vicoli, passaggi sospesi e inevitabili memorie storiche. Un progetto rigenerativo che inserisce stabilmente la zona tra gli itinerari turistici della città.
La Mano di Miriam è il simbolo ebraico, collegato ai cinque libri della Torah, scelto per rappresentare i luoghi di interesse dell’area e per rievocare le attività artigianali che si svolgevano nelle botteghe. La possiamo trovare su formelle in porcellana affisse ad alcuni palazzi,  dépliant, shopper, adesivi, vetrofanie e sottobicchieri nei bar.

Via Oberdan, cancello di accesso al ghettoVia Oberdan

Mano MIRIAM 1 mappa ghetto

Origine del nome ghetto

Il termine ghetto deriva dal nome del quartiere di Venezia in cui furono relegati gli ebrei all’inizio del Cinquecento: in quella zona era presente una fonderia, in veneziano “geto” (getti di metallo fuso). Gli ebrei aschenaziti, originari della Germania, pronunciavano il nome con la ‘g’ dura,  perciò ghetto.

La presenza ebraica a Bologna è testimoniata già a partire dal 300 a.C. Tuttavia, fino al XIII secolo si trattava di gruppi non stanziali che si muovevano di città in città, spesso chiamati da signori o governi locali cui servivano prestiti di denaro.
La prima comunità stabile a Bologna (1353), costituita da alcuni drappieri provenienti da Rimini, da alcune zone marchigiane e da Perugia, si concentrò intorno a Porta Ravegnana e alle Due Torri. Ricchi mercanti e banchieri si stabilirono anche in altri palazzi della città dove conducevano attività commerciali e culturali. Due bellissimi esempi:
Casa Sforno in piazza Santo Stefano 15. Nel XV secolo, la famiglia di origine catalana (sefardita), di cui Obadia Sforno (Ovadjah) fu illustre esponente in campo medico e religioso, in qualità di rabbino, adottò l’edificio come abitazione, luogo di culto e di studi religiosi, magazzini e banco di prestito;
Palazzo Bocchi in via Goito 16, di architettura rinascimentale, dove lo storico umanista Achille Bocchi (1488–1562) fondò l’Accademia di studi filosofici “Ermatema”. 

La bolla del papa Paolo IV (Cum nimis absurdum)

A metà del Quattrocento, sotto i Bentivoglio, Bologna era considerata un centro ebraico importante, con due sinagoghe attive, prolifica, prospera, di grande fervore commerciale e intellettuale. Tuttavia, per quanto l’economia della città traesse giovamento da quel dinamismo, gli ebrei subirono anche manifestazioni di insofferenza. Già nel 1417 era stato loro imposto di portare un segno di riconoscimento: un cerchio giallo per gli uomini e un velo giallo per le donne, lo stesso colore che dovevano indossare per la strada anche le prostitute. Quando il governo passò dai Bentivoglio allo Stato Pontificio (1504) le ostilità si inasprirono. Nel 1555 il pontefice Paolo IV Carafa promulgò la bolla Cum nimis absurdum con la quale istituiva i ghetti sui territori pontifici. L’anno successivo (1556) anche Bologna segregò la comunità ebraica in un’area compresa fra le attuali via Zamboni, via Oberdan, via de’ Giudei, via dell’Inferno e vicolo San Giobbe. La segregazione intendeva evitare i contatti  fra i cristiani e gli ebrei, limitandoli ai soli rapporti economici che avevano luogo nei banchi durante il giorno. Furono innalzate muraglie e montati cancelli e portoni per regolare gli accessi. Oggi, l’unica traccia rimasta dei varchi è quella del voltone, di origine duecentesca, in angolo con Palazzo Manzoli Malvasia, sovrastato da una maschera in arenaria nota come ‘sputavino’.

Di sera, gli accessi venivano sprangati dall’esterno così da rinchiudere gli ebrei e limitarne le relazioni col resto della città solo durante il giorno. Tutti furono costretti ad abbandonare le proprie case per occupare quelle dei cristiani, che, a loro volta, furono obbligati a cedere in affitto le proprie abitazioni e a trasferirsi fuori dal ghetto. Gli edifici furono suddivisi per ricavare spazi abitativi, più ridotti, anche nelle scale e negli androni. Il processo di trasferimento e segregazione fu completato nell’arco di 11 anni, dopo i quali gli ebrei vissero nel serraglio bolognese per altri 40, prima di essere definitivamente cacciati, nel 1596, da papa Clemente VIII. Dovettero portare con sé anche le ossa dei propri morti che trovarono riposo in un piccolo cimitero a Pieve di Cento.

Mappa aerea GHETTO

La comunità ebraica, che si era dispersa intorno al 1593, si riformò solo intorno ai primi anni dell’Ottocento, sotto la dominazione francese di Napoleone, il cui Direttorio riconobbe agli ebrei gli stessi diritti degli altri cittadini. Gli ebrei vennero comunque riconosciuti come cittadini italiani a tutti gli effetti solo con l’Unificazione d’Italia.

Le vie del Ghetto

Le mappe affisse ad alcuni palazzi indicano i punti di sbarramento creati dopo la bolla papale entrata in vigore a Bologna nel 1556:
– freccetta nera per i due cancelli di accesso, uno su via Oberdan e uno all’imbocco di via de’ Giudei;
– barretta nera per i muri innalzati allo scopo di circoscrivere l’area e relativi portoni di legno.

Mappa in via CanonicaMappa in via Canonica

Partiamo da piazza di Porta Ravegnana, sotto le Due Torri:

Via de’ Giudei

Qui si trovava uno dei due cancelli che venivano sbarrati tutte le sere e in occasione di eventi particolari.

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Vicolo San Giobbe 

Prende il nome da un ospedale non più esistente. Vi si curavano le malattie veneree all’interno del Ghetto. I voltoni-cavalcavia tuttora visibili consentivano agli ebrei di spostarsi da un edificio all’altro, senza dover scendere in strada nel corso di incursioni punitive.

Vicolo Tubertini e Torre Uguzzoni

Il vicolo prende il nome dal Palazzo Tubertini (XV sec.), che si affaccia su via Oberdan, e dalla famiglia fiorentina che ne divenne proprietaria nel XVIII secolo.
Oltre il voltone, se si accede da via Oberdan, o procedendo da vicolo San Giobbe, troviamo la Torre Uguzzoni (XII secolo ca.). La torre passò di proprietario in proprietario fino ad essere acquistata dai Tubertini che le diedero l’attuale forma, non più tipicamente medievale e con un’altana sulla cima. La base in selenite è a filo dei muri e non a scarpa come in altre torri della città (v. ns. Itinerario alla scoperta delle torre medievali). La torre conserva ancora la bella porta originaria, sormontata da un arco a sesto molto acuto. Le due finestre ad arco tondo e il ridotto spessore delle murature dimostrano che siamo in presenza di una casa-torre, adibita cioè all’uso abitativo, come spiegato nel nostro articolo Bologna, la «turrita».

Torre Uguzzoni

Il voltone a sinistra porta in vicolo Mandria. Quello a destra in vicolo San Giobbe. Alle spalle, vicolo Tubertini vs. via Oberdan.

Vicolo Mandria

Già stradello del Ghetto, prese probabilmente il nome attuale dalla presenza di stalle. Lo si può imboccare passando sotto il bell’arco della Torre Uguzzoni, decorato da una ghiera di terrecotte.
Proseguendo lungo vicolo San Simone si raggiunge:

Via dell’Inferno – Casa Buratti (ex Sinagoga)

Al numero 16, all’altezza del primo piano, una targa apposta nel 1988 ricorda l’antica sede della Sinagoga, distrutta dai bombardamenti del 1943, le vittime bolognesi del nazismo e l’eredità, morale e spirituale, lasciata da illustri esponenti della cultura ebraica di Bologna, fra i quali lo stesso Obadia Sforno già citato più sopra.
Un secondo punto di attrazione per i turisti è dato da uno spioncino presente nella volta del portico al numero civico 3. Un altro è presente in via Valdonica, ma preferiamo parlarne brevemente in un paragrafo più sotto.
L’origine del nome non è certa, come non è certo che fosse atttribuibile alla presenza degli ebrei perché esisteva già nel ‘400, cioè prima della loro segregazione all’interno del ghetto. Qualcuno ipotizza che dipendesse dalla gentaglia che vi abitava, o che si trattava di un luogo sporco e buio, ma il fatto che vi scorresse a cielo aperto il torrente Àposa, le cui acque immonde emanavano pessimi odori per via delle attività artigianali che vi si svolgevano, è ugualmente attendibile.

Piazzetta Marco Biagi

Compresa tra via dell’Inferno e piazza San Martino, il 22 novembre 2002 è stata intitolata al Professor Marco Biagi, giuslavorista consulente del Ministero del Lavoro ucciso mentre rientrava nella sua abitazione la sera del 19 marzo 2002.

Via Valdonica e Museo Ebraico di Bologna (MEB)

I portici su entrambi i lati rendono via Valdonica un tratto cupo e un po’ angusto, ma indubbiamente suggestivo. Nella volta sotto il portico, al numero civico 14, è presente il secondo spioncino di cui parleremo fra poco, mentre al civico 1/5, dove la via svolta ad angolo retto, troviamo il Museo Ebraico di Bologna.
Inaugurato nel 1999, il Museo conserva, studia e divulga, rivolgendosi in particolare al pubblico in prevalenza non ebraico della nostra regione, la cultura, la storia e le testimonianze del popolo ebraico radicatosi a Bologna e in Emilia Romagna dai tempi antichi.

Il Museo è suddiviso in tre sezioni:
– mostra permanente (l’identità del popolo ebraico in quasi 4000 anni di storia);
– attività temporanee (corsi, seminari, conferenze, presentazioni di libri, arte, spettacoli, concerti, laboratori e visite guidate);
– centro di documentazione e biblioteca (consultazioni archivio, supporti informatici e collegamenti in rete).

Giorno della memoria 2020 Evento attualmente in corso – Giorno della Memoria 2020

Via del Carro, mascherone ‘sputavino’, Palazzo Manzoli Malvasia

Concludiamo il nostro giro con l’antica via Bel carro, ufficializzata in via del Carro con la riforma toponomastica napoleonica, che vanta ancora, se non più carri, alcuni bei palazzi e colonnati degni di nota come, per esempio, quello in legno di Casa Rampionesi.
Vi si accede (o se ne esce) dal voltone sovrastato dalla già citata maschera ‘sputavino’. Questo varco, all’epoca chiuso da un portone, è l’unico segno oggi riconoscibile dei punti di sbarramento dell’antico ghetto. Il voltone, sola parte residua di un antico edificio, collega la chiesa di San Donato al Palazzo Manzoli, poi Malvasia. In occasione della nomina a gonfaloniere di giustizia di un componente della famiglia Malvasia, l’architetto del palazzo, Francesco Tadolini, fece piovere sul popolo plaudente una fontana di vino grazie a un ingegnoso attacco alle botti.

Via del Carro, Casa Rampionesi

Casa Rampionesi

Accesso al Ghetto da via Zamboni e maschera 'sputavino'

Mascherone e Palazzo Manzoli Malvasia

Sotto il voltone, via del Carro. A sinistra via Canonica. Alle spalle, via Zamboni. (foto dal web)

Gli spioncini

Due abitazioni, una in via dell’Inferno 3 e una in via Valdonica 14, conservano ancora, sotto il portico, dei piccoli spioncini collegati con l’interno delle case. Le piccole aperture consentivano di controllare dall’alto le strade e chi si avvicinava al portone d’ingresso. Una precauzione che gli abitanti del ghetto adottarono nei quarant’anni (1556-1596) in cui le disposizioni pontificie proibirono agli stessi di uscire dalla zona del ghetto, senza però tutelarli dalle spedizioni punitive compiute da malintenzionati e antisemiti che, al contrario, circolavano liberamente.

Spioncino-Via Valdonica 14Spioncino in Via Valdonica, 14

Stefania Ferrini


Link esterni:

Museo Ebraico di Bologna (MEB)
Pietre d’inciampo a Bologna (video Rai Play)

Categorie:Alla scoperta di Bologna, BolognaTag:

1 commento

  1. come sempre interessantissima analisi, complimenti!

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  2. Bellissimo articolo, complimenti. Ritengo questa la zona più bella del centro storico.

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